La mia esperienza in ADMO è iniziata nel 1991 per pura casualità. Fu un amico a parlarmene per la prima volta e a coinvolgermi nel progetto di fondazione di un’Associazione il cui scopo era sensibilizzare la popolazione sulla donazione di midollo osseo e sul suo trapianto, quale trattamento per le leucemie e altre malattie del sangue. Per me queste erano problematiche sconosciute: non avevo mai svolto attività di volontariato in ospedale, né avevo mai avuto esperienza – diretta o indiretta – di queste terribili patologie. Nei primi incontri organizzati per informarci e conoscere un po’ meglio ADMO, già presente in alcune regioni del Nord, mi aveva colpito una frase del medico che si occupava del trapianto di midollo osseo, in riferimento alla possibilità di salvare tante vite con la donazione: occorreva soltanto diffondere questo messaggio. Le strutture ospedaliere le avevamo già, medici di grande competenza anche, la ricerca scientifi ca faceva passi da gigante, i risultati incoraggiavano questo mezzo terapeutico. Mancavano solo i donatori. Ma per questo, unendo le forze, potevamo portare avanti un’informazione a tappeto e una formazione alla cultura della donazione. Quindi, all’opera! Così, nel 1992, con un piccolo gruppo di volontari – tra cui mi piace ricordare per tutti Domenico Ranalli che ci ha aperto la strada – ho fondato ADMO Abruzzo. All’inizio chi ci ha dato tanto entusiasmo e fi ducia nelle nostre possibilità è stato il fondatore nazionale, Renato Picardi, che quando veniva a Pescara ci scompigliava con l’irruenza del suo carattere ma ci incoraggiava con la sua passione. Sono stata alla guida della sede regionale per tanti anni, portando avanti una linea strategica di contatto diretto con la gente e di radicamento capillare sul territorio: la risposta è stata molto positiva, soprattutto da parte dei giovani. Perché ritengo che quando ci si avvicina alla gente profondamente motivati, si trasmette un po’ del proprio convincimento, capace di far scattare una solidarietà infi nita che abbatte ogni barriera. Più che presidente, però, mi sono sempre sentita un caposquadra: soltanto se si diventa squadra si possono raggiungere certi obiettivi e io continuo a pensare che essere presidente signifi chi sì assumersi le responsabilità e gli oneri, ma anche riconoscere che il merito di determinati traguardi è merito di tutti gli operatori. Sono stata fortunata nella mia regione: lavorare insieme ha suggellato rapporti di amicizia, di stima e di grande rispetto reciproco.
Certamente il cammino intrapreso con i miei compagni di strada non è stato sempre costellato da successi, soddisfazioni e crescita dell’Associazione. Talvolta mi sento sconfortata, perché dopo tanta semina il raccolto è scarso. E mi chiedo anche che cosa signifi chi per me questo impegno in ADMO, che ho sempre vissuto come un sevizio ma che, a volte, comincia a pesarmi… in quanto diventa sempre più diffi cile conciliare gli impegni professionali, familiari con quelli del volontariato. Ma poi penso che farsi prossimo e stare vicino al bisogno dell’altro è un’esigenza insopprimibile, perché esiste l’uomo che testimonia e non la testimonianza. Quindi vado avanti, pur con tante diffi coltà e gracilità, perché ho la coscienza di partecipare ai vincoli di una comunità condividendone le necessità.
Mi chiedo se essere donna signifi chi anche portare nel volontariato un contributo specifico legato alla propria femminilità. Non credo, però, che esista una differente sensibilità verso la sofferenza legata al ruolo maschile o femminile. La sensibilità esprime l’essere umano e varia da individuo a individuo, indipendentemente dal ruolo. Forse la donna porta un contributo diverso legato a una maggiore energia, essendo culturalmente abituata a rivestire più ruoli e a ritrovarsi a gestirli nella vita di relazione. Ma il suo apporto specifico è espresso soprattutto da una grande capacità di mediazione.
Certamente il cammino intrapreso con i miei compagni di strada non è stato sempre costellato da successi, soddisfazioni e crescita dell’Associazione. Talvolta mi sento sconfortata, perché dopo tanta semina il raccolto è scarso. E mi chiedo anche che cosa signifi chi per me questo impegno in ADMO, che ho sempre vissuto come un sevizio ma che, a volte, comincia a pesarmi… in quanto diventa sempre più diffi cile conciliare gli impegni professionali, familiari con quelli del volontariato. Ma poi penso che farsi prossimo e stare vicino al bisogno dell’altro è un’esigenza insopprimibile, perché esiste l’uomo che testimonia e non la testimonianza. Quindi vado avanti, pur con tante diffi coltà e gracilità, perché ho la coscienza di partecipare ai vincoli di una comunità condividendone le necessità.
Mi chiedo se essere donna signifi chi anche portare nel volontariato un contributo specifico legato alla propria femminilità. Non credo, però, che esista una differente sensibilità verso la sofferenza legata al ruolo maschile o femminile. La sensibilità esprime l’essere umano e varia da individuo a individuo, indipendentemente dal ruolo. Forse la donna porta un contributo diverso legato a una maggiore energia, essendo culturalmente abituata a rivestire più ruoli e a ritrovarsi a gestirli nella vita di relazione. Ma il suo apporto specifico è espresso soprattutto da una grande capacità di mediazione.
Paola De Angelis